“Cosa fa una mascherina? Blocca le goccioline respiratorie provenienti dalla bocca e dalla gola”. Il professor Richard Davis, direttore del laboratorio di microbiologia clinica al Providence Sacred Heart Medical Center in Spokane, nello stato di Washington, con una prova elementare ha evidenziato l’importanza dell’uso della mascherina.
Ha documentato su Twitter il suo test e ha ottenuto un successo strepitoso, con centinaia di migliaia di retweet e like. “Due semplici esempi. Il primo: ho starnutito, cantato, parlato e tossito verso una piastra di coltura di agar con o senza mascherina. Le colonie di batteri mostrano dove le goccioline sono cadute. Una mascherina le blocca sostanzialmente”, scrive pubblicando foto eloquenti: le piastre non protette dalle mascherine mostrano una presenza batterica nettamente superiore L’esperimento non fa riferimento alla presenza del Covid-19 nelle goccioline ma di batteri generici nelle ‘droplets’.
Su Twitter, l’esperimento riscuote un enorme successo e Davis si trova a dover rispondere a decine di commenti e domande. “E’ vero al 100% -dice rispondendo ad un utente-. I batteri sono incredibilmente diversi dai virus. Ma visto che si ritiene che il Covid-19 si diffonda soprattutto attraverso le droplets, sfrutto la presenza di batteri nelle droplets per mostrare dove vanno”. Davis, che riconosce il carattere empirico della prova, ha utilizzato una mascherina chirurgica.
Lo scienziato, come documenta un’altra foto, ha anche eseguito un’ulteriore prova: ha tossito “violentemente” a diverse distanze dalle piastre. Prima con la mascherina, poi senza. Anche in questo caso, il dispositivo di protezione ha funzionato.
What does a mask do? Blocks respiratory droplets coming from your mouth and throat.
Two simple demos:
First, I sneezed, sang, talked & coughed toward an agar culture plate with or without a mask. Bacteria colonies show where droplets landed. A mask blocks virtually all of them. pic.twitter.com/ETUD9DFmgU
Misurazione della temperatura a un marinaio della portaerei statunitense T. Roosvelt.
In una lettera al New England Journal of Medicine, i medici giapponesi che hanno preso in carico passeggeri ed equipaggio della nave da crociera Diamond Princess, hanno raccontato l’evoluzione clinica dei 96 soggetti trovati positivi al virus con tampone nasofaringeo, ma clinicamente asintomatici, trasportati in osservazione in un ospedale giapponese. Undici di queste persone hanno sviluppato sintomi da 3 a 5 giorni dopo il tampone (quindi, in realtà, erano presintomatici); tutti gli altri sono rimasti asintomatici fino all’eliminazione del virus, provata da due tamponi negativi in successione. Il rischio di sviluppare sintomi aumentava con l’età. Il 27% dei positivi asintomatici aveva condizioni mediche coesistenti come ipertensione e diabete. Il 90% degli infettati è tornata negativa al tampone dopo 15 giorni, ma le persone d’età avanzata hanno impiegato più tempo a liberarsi del virus. Dei 32 compagni di cabina dei positivi, inizialmente negativi al test, 8 sono divenuti positivi entro tre giorni, ma rimanendo asintomatici.
La definizione di asintomatico riguarda le manifestazioni cliniche di malattia e non tiene conto delle lesioni polmonari spesso presenti in questi soggetti, ma rilevabili solo alla TC: più della metà delle 76 persone positive asintomatiche della Diamond Princess che sono state sottoposte a tomografia toracica avevano anormalità polmonari subcliniche.
Tutti gli studi confermano l’infettività degli asintomatici
I dati giapponesi concordano con quelli riferiti da Daniel P. Oran ed Eric J. Topol, in uno lavoro pubblicato su Annals of Internal Medicine: è spesso impossibile distinguere gli asintomatici dai presintomatici, futuri malati che potrebbero essere identificati solo da uno studio longitudinale sufficientemente protratto nel tempo. Consapevoli di tutti i limiti statistici, diagnostici e di follow-up del loro lavoro, i due autori lo hanno intitolato “rassegna narrativa”. Si tratta del resoconto degli studi sull’argomento “assenza di sintomi in soggetti positivi” pubblicati in rete dal 19 aprile al 26 maggio, da cui emergono i dati di una serie di coorti come Islanda, Vo’ Euganeo, Diamond Princess, rifugi per i senzatetto di Boston e di Los Angeles, centro ostetrico di New York City, portaerei Theodore Roosvelt, portaerei Charles De Gaulle, cittadini giapponesi evacuati da Wuhan, cittadini greci evacuati da Spagna, UK e Turchia, pensionato per infermieri di Washington, detenuti in Arkansas, North carolina, Ohio e Virginia, impiegati e studenti della Rutgers University, residenti dell’Indiana, nave da crociera argentina, residenti di un distretto di San Francisco.
In particolare, la coorte di Vo’, con la ripetizione dei tamponi ai residenti a distanza di tempo, sembra confermare che gli asintomatici sono in grado di trasmettere il virus ad altri. Stesso risultato sulla nave T. Roosvelt, dove gli asintomatici hanno infettato altri per un periodo che supera le due settimane. L’età dei casi asintomatici di molte coorti fanno pensare che la gravità clinica aumenti con l’età e abbia a che fare anche con il genere (risparmiando le femmine). Ma la verità è che non si sa perché, a parità di età e di condizioni fisiche, alcuni non sviluppano sintomi e altri hanno bisogno della respirazione assistita.
Le coorti più rappresentative non sono quelle confinate a priori, ma quelle di popolazione generale, come Islanda, Indiana e Vo’: proprio dalla media dei loro dati emerge una percentuale stimata di 40-45% di asintomatici, che va corretta a 30% se si tiene conto della commistione con i presintomatici.
Mascherina per tutti
Il report di Oran e Topol è stato molto criticato per le stesse ragioni ammesse dagli autori: inattendibilità dei risultati dei tamponi per ingente proporzione di falsi postivi oltre che di falsi negativi, mancanza di follow-up con perdita dei presintomatici, coorti troppo confinate (carceri), impossibilità di inquadramento anamnestico dei soggetti implicati nella ricerca, ecc.
Comunque sia e in attesa di studi più rigorosi, sulla base del rischio diffusivo della circolazione degli infetti asintomatici, lo stesso Eric Topol ha ribadito in un tweet il suo convincimento che l’uso delle mascherine indossate in tutte le occasioni di vicinanza fisica con altre persone sia l’unico efficace freno all’epidemia, finché non sarà possibile testare tutta la popolazione.
Efficacia della mascherina nell’abbassare il numero di riproduzione dell’infezione a seconda che la mettano tutti o solo i sintomatici. Fonte: Proceedings of the Royal Society (vd. bibliografia).
La gaffe dell’OMS
Suona quindi come una gaffe quanto sostenuto da Maria Van Kerkhove, consulente della squadra tecnica anti Covid-19 dell’Organizzazione mondiale della sanità, durante la conferenza stampa virtuale dell’8 giugno 2020. La Van Kerkhove ha stimato come asintomatico il 16% della popolazione, e ha continuato dicendo che l’ipotesi che il 40% dei contagi sia causato da asintomatici proviene da modelli matematici e non è stato provato da rilevazioni reali. Kerkhove ha concluso il suo intervento dicendo che, dai dati in suo possesso, risulta molto raro che un asintomatico trasmetta l’infezione.
La spiegazione di questa spiazzante dichiarazione sta nella chiosa fatta da Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’OMS, che riporta alla distinzione tra asintomatici, presintomatici e pauci sintomatici. Secondo Guerra, gli asintomatici veri non sono molti e probabilmente sono tali perché hanno una carica virale così bassa da non costituire un serio pericolo per il prossimo. La strategia che l’OMS ritiene vincente è quella di indurre i governi a concentrare i loro sforzi nel tracciamento e nell’isolamento dei casi sintomatici.
Leggendo la trascrizione della conferenza stampa, si arriva alla conclusione, condivisa da una rivista intelligente come il New Yorker, che, come spesso è successo, estrapolare una frase innesca un’inutile polemica: che gli individui infetti ma senza sintomi possano diffondere l’infezione, l’OMS lo sa bene e lo ha ribadito Michael Ryan, epidemiologo irlandese veterano delle epidemie di Ebola e delle campagne antipolio, in un Facebook live organizzato in tutta fretta dopo le sollevazioni contro le dichiarazioni della collega, quando ha asserito: “È chiaro che sia i sintomatici sia gli asintomatici sono parte del ciclo di trasmissione”.
Il nocciolo della questione sta, ancora una volta, nella comunicazione: la risposta dell’epidemiologa statunitense, trasandata e sbrigativa, che cita fonti “attendibili” che però non sono rivelate e che non tiene conto (ma ancora oggi, dopo 400.000 morti?!) del potere delle parole, si configura come l’ennesimo errore comunicativo dell’OMS. Creare un alibi alla gente per abbassare la guardia (se non tossisco e mi sento in forma, a che servono il distanziamento e la mascherina?) è particolarmente pericoloso se si pensa che, se una persona, invece che asintomatica è presintomatica, si trova proprio nel momento in cui la sua carica virale è massima e massima è la sua contagiosità.
Bibliografia
Natural History of Asymptomatic SARS-CoV-2 Infection New Engl J Med June 12, 2020 DOI: 10.1056/NEJMc2013020
Oran DP, Topol EJ. Prevalence of asymptomatic SARS-CoV-2 infection. Annals of Internal Medicine 3/6/20 https://doi.org/10.7326/M20-3012
Richard O. J. H. Stutt, Renata Retkute, Michael Bradley, Christopher A. Gilligan and John Colvin. A modelling framework to assess the likely effectiveness of facemasks in combination with ‘lock-down’ in managing the COVID-19 pandemic. Proceedings of the Royal Society. 10 June 2020 https://doi.org/10.1098/rspa.2020.0376
Trascrizione della conferenza stampa dell’OMS (8 giugno 2020).
Lo chiamano antivaccinismo o semplicemente movimento No Vax e, con la pandemia di coronavirus che si è scatenata violentemente sopra le nostre teste, sono tornati a farsi sentire.
Dato quasi per scontato che la soluzione ultima per metter fine a questo “mostro” chiamato COVID-19 sia la scoperta di uno o più vaccini, l’opinione pubblica si spacca a riguardo.
Comunque la si pensi, sembra che a orientare le posizioni su un tema così delicato siano le informazioni e i gruppi di opinione che si trovano su Internet, e in particolare sui social media.
Un nuovo studio pubblicato su “Nature” da Neil Johnson e colleghi della George Washington University, ha tracciato una mappa completa delle interazioni su Facebook tra persone a favore, contrarie o neutrali alle vaccinazioni, indicando come si possono influenzare a vicenda e dimostrando che queste comunità online sono un terreno fertile per la crescita e lo sviluppo della sfiducia nelle competenze di medici e scienziati.
La ricerca s’inserisce in un ricco filone di studi che cerca di analizzare come si propaga in rete la disinformazione su temi particolarmente importanti come il riscaldamento climatico o, in tempi più recenti, la pandemia del nuovo coronavirus.
La preoccupazione è che le notizie infondate e fuorvianti possano diffondere comportamenti scorretti, aggravando il contagio a livello globale.
Magari, quando la tempesta coronavirus sarà passata, scopriremo (forse ci vorranno anni) interessanti o scabrosi retroscena su questo capitombolo mondiale, sulla sua reale natura, sull’esistenza di eventuali complotti o doppi fini, oppure semplicemente sull’impreparazione dell’umanità, distratta da ben altro, ad una simile pandemia.
I credenti, come il sottoscritto, fanno risalire velocemente alla mente il versetto biblico di Luca 21:11 che preannunciava simili situazioni.
Ad ogni modo malattie mortali o fortemente invalidanti sono una realtà, come sono altrettanto realtà i numeri.
Purtroppo, ma è pur comprensibile, non tutti hanno familiarità con l’analisi statistica dei dati. Quale uomo di scienza, ed avendo particolare familiarità con ciò che c’è dietro la scoperta di un nuovo farmaco o soluzione terapeutica, in termini di tempi, test e autorizzazioni, non posso che essere concorde con la frase che ha reso celebre un famoso ingegnere statunitense:
Detto in parole povere, senza prove o senza numeri le nostre posizioni (anche in tema vaccini) restano semplicemente opinioni.
Ed è sulla base di ciò, che non intendo dilungarmi in personali disquisizioni o basi scientifiche. Dico solo: facciamo parlare i numeri qui sotto e poi scegliete/valutate il “meno peggio”.
Qual è il ruolo dei linfociti T, le cellule guerriere del sistema immunitario, nella battaglia contro il nuovo coronavirus all’interno del nostro corpo? Gli scienziati non hanno ancora le idee chiarissime, ma sembra che questo ennesimo mistero attorno all’infezione di Sars-Cov-2 cominci a dipanarsi. In un articolo pubblicato su Celli ricercatori del Center for Infectious Disease and Vaccine Research di La Jolla (California,Usa) sostengono di aver trovato particolari tipi di linfociti T in grado di riconoscere e combattere Sars-Cov-2 sia nei pazienti guariti da Covid-19 sia in persone che non hanno mai contratto la malattia ma che probabilmente hanno avuto a che fare con altri coronavirus. Non si sa ancora se conferiscano immunità a lungo termine, tuttavia questi risultati indicano possibili vie alternative per lo sviluppo di vaccini efficaci.
Non solo anticorpi
Ormai li conosciamo: gli anticorpi sono quelle molecole prodotte dal linfociti B che riconoscono gli antigeni specifici del patogeno e ci si attaccano interferendo con l’infezione e segnalando al resto del sistema immunitario la presenza dell’intruso da eliminare. E’ sulla produzione di anticorpi contro la proteina spike del coronavirus Sars-Cov-2 che si sta giocando la partita del vaccino in questo momento.
Lo studio appena pubblicato dalla rivista Cell aggiunge ora dei dettagli sugli altri meccanismi di difesa che il nostro organismo mette in campo per combattere il nuovo coronavirus, concentrandosi in particolare sul ruolo dei linfociti T, che sono definiti i guerrieri del sistema immunitario, quelli che attivamente vanno a combattere gli aggressori.
In realtà però esistono diversi tipi di linfociti T, che non fanno le stesse cose. Ci sono i linfociti T helper che come (suggerisce il nome) aiutano altre componenti immunitarie ad attivarsi, e ci sono i linfociti T killer (anche qui nomen omen) che invece mirano il bersaglio e lo distruggono. Che ruolo hanno nell’infezione da Sars-Cov-2?
Linfociti T all’appello
A darci una prima risposta sono i ricercatori statunitensi dell’istituto di immunologia di La Jolla, che prima hanno predetto attraverso strumenti bioinformatici quali frammenti proteici del virus avrebbero con maggiore probabilità suscitato risposte immunitarie, poi sono andati a verificare gli effetti di questi frammenti virali sul sangue dei pazienti guariti da Covid-19.
Ciò che è emerso è che nei campioni di tutti i 20 pazienti guariti erano presenti linfociti T helper che riconoscono sia la proteina spike di Sars-Cov-2 sia altre proteine virali. Il 70% dei pazienti guariti, poi, presentava anche linfociti T killer diretto contro il nuovo coronavirus.
Questi risultati sono supportati da un altro studio (pubblicato in preprint su medRxiv) condotto da un team di Berlino che ha ottenuto dati simili: in 15 su 18 pazienti ricoverati per Covid-19 c’erano linfociti T helper contro il coronavirus.
Cross-reattività
Sia i ricercatori di La Jolla sia quelli di Berlino hanno poi fatto un controllo sul sangue di persone che non si sono mai ammalate di Covid-19 e hanno scoperto che comunque c’erano dei linfociti T in grado di riconoscere e combattere Sars-Cov-2. I tedeschi hanno trovato che nel 34% dei campioni c’erano linfociti T helper per Sars-Cov-2; i californiani, che hanno fatto il test su campioni di sangue conservati raccolti tra il 2015 e il 2018 (quindi prima della pandemia di Covid-19) hanno visto la stessa cosa nel 50% delle persone.
Come è possibile? Gli scienziati pensano al fenomeno noto come cross-reattività, ossia che queste cellule T in grado di riconoscere Sars-Cov-2 si siano differenziate in un altro momento a seguito di un’altra infezione, magari da parte di uno degli altri coronavirus umani che causano sindromi da raffreddamento le cui strutture proteiche sono simili a quelle del nuovo virus.
Quale immunità?
Sebbene entrambi gli studi siano basati su piccoli numeri, gli esperti ritengono che ne emergano considerazioni interessanti. La presenza di linfociti T attivi contro Sars-Cov-2 nei pazienti guariti farebbe ben sperare in un’immunità duratura, anche se è ancora tutto da appurare e non è ancora escluso ci si possa riammalare. La presenza di cellule T simili anche in chi non ha contratto il nuovo coronavirus, invece, potrebbe significare che più persone di quante si creda abbiano già delle armi a propria disposizione contro Sars-Cov-2: tutto sta a capire ora se la cross-reattività sia uno scudo protettivo o un’arma a doppio taglio, che determina reazioni immunitarie esagerate quando il nuovo coronavirus infetta l’organismo. Infine questi risultati offrono un nuovo punto di vista sulla progettazione di un futuro vaccino: la ricerca dovrebbe concentrarsi anche su altri antigeni oltre che sulla proteina spike.
Dario Sannino, esperto del settore farmaceutico, ci conferma che la corsa ai vaccini contro il nuovo coronavirus non si ferma. E in gara, ovviamente non l’uno contro l’altro ma se mai tutti insieme, ci sono più di 95 candidati che diversi gruppi di ricerca nel mondo stanno studiando – molti ancora in fase preclinica e solo qualcuno già testato su volontari umani. Poco più di un mese fa, un team dell’università di Oxford ha annunciato di star studiando un vaccino le cui prime dosi sarebbero potute arrivare già nell’autunno 2020. Oggi questo gruppo, cui si aggiunge una squadra anche italiana, sta per iniziare la fase 2-3 – le ultime due fasi – della sperimentazione clinica, come annuncia una nota della Oxford University. Ecco come funzionerà questo studio e a che punto siamo anche con gli altri vaccini.
Il vaccino di Oxford sta per iniziare la fase 2-3
Il 27 aprile 2020 il gruppo dello Jenner Institute all’università di Oxford dichiarava di aver iniziato il primo trial clinico con il vaccino denominato ChAdOx1 su un gruppo ristretto di pazienti. Qualora fosse andato tutto come previsto, spiegavano i ricercatori, le prime dosi disponibili (qualche milione) sarebbero potute arrivare già nel settembre 2020 – e questo è ancora possibile, ma tuttora non si ha alcuna certezza. Al vaccino sta lavorando anche l’Italia, come si legge in una nota dell’Ansa, che riporta che il trial clinico di fase 2-3 (la fase 3 è l’ultima della sperimentazione) partirà fra pochi giorni, sia nel Regno Unito, sia in Brasile.
Nella fase 1, iniziata nell’aprile 2020, sono già state fatte più di 1.000 vaccinazioni e il follow-up è ancora in corso. Nelle prossime fasi i partecipanti saranno molti di più, come previsto nel percorso della sperimentazione clinica sia dei vaccini sia dei farmaci, e saranno più di 10mila, di cui circa 5mila nel Regno Unito e 5mila in Brasile. Mentre nella fase 1 la fascia d’età coinvolta andava dai 18 ai 55 anni, nella fase 2 saranno inclusi anche partecipanti dai 56 anni in su e dai 5 ai 12 anni: questo servirà a capire se il sistema immunitario delle persone anziane ma anche dei bambini e dei giovanissimi risponde in maniera sufficiente al vaccino. Nella fase 3, poi, quando il vaccino avrà dimostrato in prima battuta di essere sicuro e efficace, i ricercatori dovranno valutare e confermare efficacia e sicurezza su un campione ancora più vasto di persone con più di 18 anni.
Vaccino, perché proprio il Brasile
Come mai prenderà parte anche il Brasile? I motivi sono dovuti al fatto che qui siamo nel pieno dell’epidemia (fra il 4 e il 5 giugno ci sono stati quasi 31mila nuovi casi di contagio e 1.473 morti in un solo giorno). Mentre in Italia e in altri paesi europei la (fortunatamente) bassa circolazione del virus non permette di poter svolgere trial clinici più ampi – tanto che tempo fa, nel pieno dell’epidemia, qualcuno si era chiesto se fosse etico infettare deliberatamente le persone in mancanza di un campione sufficientemente grande.
Vaccini, i trial clinici attivi
Ma ChAdOx1 non è l’unico candidato promettente. Attualmente i trial clinici – arrivati dunque già ai test sull’essere umano e non soltanto sugli animali – che studiano vaccini contro il coronavirus e che sono già attivi e partiti sono vari, come risulta dalla pagina ufficiale di Clinicaltrials.gov, su cui si possono trovare tutte le informazioni su trial preclinici e clinici sui vaccini e sulle terapie contro Covid-19. Il vaccino Ad5-nCov ha dato buoni risultati nella fase 1, il cui follow-up è ancora in corso, mentre in un altro trial è già partita la fase 2, dal 12 aprile 2020, su 508 partecipanti. Anche questo, come il precedente, utilizza un adenovirus, un comune virus del raffreddore, come vettore del materiale genetico del Sars-Cov-2 necessario per la vaccinazione.
Anche il vaccino mRna-1273 ha fatto registrare, nella fase 1, dati preliminari positivi per quanto riguarda la tollerabilità e la sicurezza (ma ancora solo su 8 partecipanti – la fase 1, appunto). Nel frattempo, il 15 maggio è iniziato poi un trial clinico, di fase 1 e 2, con un vaccino terapeutico, dunque non a scopo preventivo, come i precedenti, ma come terapia (non è la prima volta che si parla di vaccini terapeutici). Questo trattamento è una pillola derivata dal plasma inattivato dei pazienti con Covid-19. La pillola verrà somministrata una volta al giorno per almeno un mese in 20 volontari sani. Ma numerosi sono i candidati promettenti e solo il tempo ci dirà quanti e quali si mostreranno efficaci e arriveranno prima.
Per capire meglio se e come l’epidemia di Covid-19 sta cambiando, in Italia e negli altri paesi, gli scienziati utilizzano diversi numeri importanti. Fra questi c’è R0, il tasso netto di riproduzione, che è il numero medio di persone che ogni malato può contagiare e che, dato che si misura all’istante iniziale, non tiene conto dell’evoluzione dell’epidemia. E poi c’è Rt, il tasso di riproduzione che varia col tempo e che invece tiene conto dell’evoluzione della trasmissione del virus (di fatto fotografa a un certo tempo dell’epidemia il numero medio di persone che ognuno può contagiare). R0 e Rt misurano di fatto lo stesso numero, ciò che cambia – spiega un articolo su Scientific Reports – è il tempo in cui viene fatta la misura (all’inizio o durante l’epidemia). In pratica, Rt è il parametro che gli epidemiologi utilizzano per valutare la diffusione del virus e monitorare l’epidemia. Ma cosa indica davvero? E perché la definizione fornita sabato 23 maggio dall’assessore alla Sanità della Lombardia Giulio Gallera non è appropriata?
Cos’ha detto Gallera Dopo diversi giorni, sabato 23 maggio l’assessore Gallera è tornato a commentare in diretta i dati dei contagi della Lombardia. Ma nel presentare i dati spiega in maniera inappropriata cos’è Rt, il tasso di riproduzione in un certo istante. L’assessore commenterà poi che ha voulto illustrare il concetto in maniera semplificata, tuttavia la semplificazione nasconde un errore prospettico, che diventa però concettuale, importante da chiarire. Nella conferenza del 23, infatti, afferma che l’indice di contagio in Lombardia è sceso a 0,51 e che “0,51 cosa vuol dire? Per infettare me, bisogna trovare due persone infette nello stesso momento e non è così semplice trovare due persone infette che infettino me”.
Calcolare R0 e Rt non è semplice La stima di Rt è complessa e non così semplice (o semplificabile) dato che dipende da vari parametri – per esempio ovviamente dal tasso d’infezione della popolazione ma anche in parte dall’adesione alle misure restrittive durante l’epidemia – e viene calcolato attraverso modelli matematici.
Perché la spiegazione di Gallera non va Rt è il numero medio di persone che ogni malato può contagiare. Ma questo non vuol dire che se è 0,51 per contagiare una persona ne servano due infette, incontrate contemporaneamente, che le trasmettono il virus – come sembra arrivare dalle dichiarazioni di Gallera. Il fatto che Rt in Italia sia sotto l’1 e compreso fra 0,2 e 0,7, è significativo e fa ben sperare: questo vuol dire che l’epidemia può essere contenuta. Tuttavia, Rt è un un parametro statistico medio, e per questo concettualmente – ma anche intuitivamente – è chiaro che se io sono sano per ammalarmi non devo incontrare contemporaneamente sul mio percorso due persone contagiate: basta un contatto con un malato per contagiarmi, soprattutto se non si usano le misure di protezione, dalle mascherine al distanziamento.
Ma allora Rt pari a 0,51 cosa vuol dire? In generale, avere un Rt pari a 0,51 vuol dire, facendo una proiezione, che su un campione statistico di 1000 malati, in media questi probabilmente contageranno circa 510 persone. Ma queste sono stime statistiche e il parametro Rt deriva da una media all’interno di un vasto campione: il contagio avviene sempre da singolo a singolo. Alcune persone positive al virus contageranno molte persone, altre ne contageranno di meno e qualcuno non infetterà proprio nessuno; in media, per ogni due persone infette sarà contagiata una terza persona. Insomma, l’idea è che quello che vale per un campione statistico (1000 persone ne contagiano in media 510) non vale per il singolo. E soprattutto per la compresenza, ovvero l’asserzione per cui ne servono due infette nello stesso momento a contagiarne una terza.
Mascherine, guanti, vaschette per alimenti: con la paura del contagio, la plastica usa e getta ha (di nuovo) invaso le nostre vite. Produttori e compagnie petrolifere ringraziano, ma il tutto avviene a danno dell’ambiente.
L’avevamo data per spacciata, ma con l’arrivo del coronavirus la plastica monouso è tornata alla ribalta. In tutto il mondo le persone hanno affidato la loro sicurezza a guanti e mascherine usa e getta, mentre molti governi hanno rinviato al dopo-emergenza plastic tax e norme per limitare gli imballaggi. Per la gioia delle aziende del settore, certo, ma anche delle compagnie petrolifere, che nella produzione di plastica sperano di trovare uno sbocco redditizio per tutto il greggio che, con gli aerei a terra e le auto ferme in garage, nessuno vuole più. A rimetterci è invece l’ambiente perché questa mole di rifiuti non riciclabili rischia di compromettere ulteriormente la salute di fiumi, laghi e oceani, dove si accumula gran parte della plastica che sfugge a discariche e inceneritori.
Nella prima fase dell’emergenza, si capisce, non c’è stato neanche il tempo di riflettere: il problema era trovare al più presto le mascherine per medici e infermieri; a come smaltirle ci avremmo pensato dopo. L’impiego di questi dispositivi di protezione, tuttavia, è diventato un caposaldo anche della fase 2 e sembra destinato ad accompagnarci nella lunga e tormentata convivenza con il coronavirus Sars-CoV-2. Non possiamo più fare finta di niente: si stima che ogni giorno, solo in Italia, l’uso di mascherine produca almeno 100 tonnellate di rifiuti plastici. E poiché si tratta di materiali compositi e contaminati, non si possono differenziare né riciclare. Quando va bene, finiscono in un inceneritore. Quando va male, sono dispersi nell’ambiente.
Inoltre non ci sono solo guanti, camici e mascherine. Durante il lockdown c’è stato un boom di imballaggi in plastica monouso per alimenti da asporto, nonostante oggi siano disponibili valide alternative in materiali compostabili. L’armamentario della fase 2 è invece un tripudio di divisori in plexiglas, sacchetti monouso e pellicole avvolgenti. La normativa Inail, per esempio, obbliga i parrucchieri a consegnare a ogni cliente “unaborsa/sacchetto individuale monouso per raccogliere gli effetti personali da restituire al completamento del servizio”, e a “fornire al cliente durante il trattamento/servizio una mantella o un grembiule monouso ed utilizzare asciugamani monouso”.
Approfittando della Covid-19, i produttori di plastica hanno esercitato pressioni sui governi affinché rinunciassero alle restrizioni e ai balzelli sulla plastica monouso, spesso con successo. In Italia l’entrata in vigore della plastic tax è stata rinviata al 2021, mentre la Gran Bretagna ha sospeso l’annunciato rincaro sui sacchetti di plastica. Negli Stati Uniti la Plastics Industry Association ha promosso la campagna Bag the Ban, invitando il ministero della Salute statunitense a opporsi ai disegni di legge per vietare i sacchetti monouso, sostenendo (senza prove) che la plastica è più igienica e sicura delle borse riutilizzabili. In realtà, secondo uno studio dei National Institutes of Health, il coronavirus Sars-CoV-2 sopravvive sulla plastica fino a tre giorni e quella che esce dagli stabilimenti non è certo sterile.
Ai tempi della Covid-19 la plastica può dare una mano anche alle compagne petrolifere. Già prima della pandemia gli analisti avevano previsto che l’industria del gas e del petrolio avrebbe puntato sull’aumento della produzione di plastica per compensare le perdite dovute al diffondersi delle auto elettriche e alle politiche sul clima. E oggi, con tutto quel petrolio disponibile a prezzi stracciati, in molti casi riciclare la plastica è diventato meno conveniente che buttarla e produrne dell’altra. La produzione di plastica è già quadruplicata negli ultimi 40 anni e secondo stime del 2019 entro la metà del secolo sarà responsabile del 15% delle emissioni globali di gas serra, poco meno di quelle che oggi vengono attribuite al settore dei trasporti.
Nel frattempo i ricercatori avvertono che l’inquinamento da microplastiche – che ormai si trovano persino nell’aria che respiriamo – è persino più diffuso del previsto. Uno studio appena pubblicato sulla rivista Environmental Pollution mostra infatti che la concentrazione di microplastiche negli oceani è stata ampiamente sottostimata: sarebbe almeno il doppio di quanto si credeva finora. In base a questi nuovi dati, i ricercatori affermano che negli oceani ci sono più frammenti di materie plastiche che zooplancton, gli animaletti alla base della catena alimentare marina. E poiché le microplastiche hanno le stesse dimensioni del plancton, finiscono nella dieta dei pesci e tendono ad accumularsi negli organismi superiori, arrivando fino a noi. Gli effetti sulla salute umana sono ancora oggetto di studio, ma poiché gran parte della plastica dispersa nell’ambiente risulta contaminata da sostanze tossiche, il sospetto è che l’accumulo nei nostri corpi non faccia un gran bene.
Le associazioni ambientaliste denunciano che guanti e mascherine disperse nell’ambiente hanno già raggiunto fiumi e mari, dove rischiano di creare gravi danni alla fauna acquatica. “I guanti, proprio come i sacchetti di plastica, possono essere scambiati per meduse dalle tartarughe marine, mentre gli elastici delle mascherine sono un pericolo per molte specie animali”, racconta John Hocevar, direttore della campagna oceani di Greenpeace Usa.
Se non vogliamo che l’emergenza coronavirus si trasformi in una nuova bomba ecologica dobbiamo ripensare l’intera filiera affinché diventi al più presto sostenibile: almeno per gli impieghi non sanitari, si potrebbe pensare a mascherine riutilizzabili, o prodotte con un unico polimero e altri materiali facilmente separabili e riciclabili, nonché a contenitori appositi da distribuire in ogni centro urbano. Perché quando ci saremo finalmente sbarazzati della Covid-19, la plastica che abbiamo disperso nell’ambiente ci farà compagnia ancora molto, molto a lungo.