“Cosa fa una mascherina? Blocca le goccioline respiratorie provenienti dalla bocca e dalla gola”. Il professor Richard Davis, direttore del laboratorio di microbiologia clinica al Providence Sacred Heart Medical Center in Spokane, nello stato di Washington, con una prova elementare ha evidenziato l’importanza dell’uso della mascherina.
Ha documentato su Twitter il suo test e ha ottenuto un successo strepitoso, con centinaia di migliaia di retweet e like. “Due semplici esempi. Il primo: ho starnutito, cantato, parlato e tossito verso una piastra di coltura di agar con o senza mascherina. Le colonie di batteri mostrano dove le goccioline sono cadute. Una mascherina le blocca sostanzialmente”, scrive pubblicando foto eloquenti: le piastre non protette dalle mascherine mostrano una presenza batterica nettamente superiore L’esperimento non fa riferimento alla presenza del Covid-19 nelle goccioline ma di batteri generici nelle ‘droplets’.
Su Twitter, l’esperimento riscuote un enorme successo e Davis si trova a dover rispondere a decine di commenti e domande. “E’ vero al 100% -dice rispondendo ad un utente-. I batteri sono incredibilmente diversi dai virus. Ma visto che si ritiene che il Covid-19 si diffonda soprattutto attraverso le droplets, sfrutto la presenza di batteri nelle droplets per mostrare dove vanno”. Davis, che riconosce il carattere empirico della prova, ha utilizzato una mascherina chirurgica.
Lo scienziato, come documenta un’altra foto, ha anche eseguito un’ulteriore prova: ha tossito “violentemente” a diverse distanze dalle piastre. Prima con la mascherina, poi senza. Anche in questo caso, il dispositivo di protezione ha funzionato.
What does a mask do? Blocks respiratory droplets coming from your mouth and throat.
Two simple demos:
First, I sneezed, sang, talked & coughed toward an agar culture plate with or without a mask. Bacteria colonies show where droplets landed. A mask blocks virtually all of them. pic.twitter.com/ETUD9DFmgU
Misurazione della temperatura a un marinaio della portaerei statunitense T. Roosvelt.
In una lettera al New England Journal of Medicine, i medici giapponesi che hanno preso in carico passeggeri ed equipaggio della nave da crociera Diamond Princess, hanno raccontato l’evoluzione clinica dei 96 soggetti trovati positivi al virus con tampone nasofaringeo, ma clinicamente asintomatici, trasportati in osservazione in un ospedale giapponese. Undici di queste persone hanno sviluppato sintomi da 3 a 5 giorni dopo il tampone (quindi, in realtà, erano presintomatici); tutti gli altri sono rimasti asintomatici fino all’eliminazione del virus, provata da due tamponi negativi in successione. Il rischio di sviluppare sintomi aumentava con l’età. Il 27% dei positivi asintomatici aveva condizioni mediche coesistenti come ipertensione e diabete. Il 90% degli infettati è tornata negativa al tampone dopo 15 giorni, ma le persone d’età avanzata hanno impiegato più tempo a liberarsi del virus. Dei 32 compagni di cabina dei positivi, inizialmente negativi al test, 8 sono divenuti positivi entro tre giorni, ma rimanendo asintomatici.
La definizione di asintomatico riguarda le manifestazioni cliniche di malattia e non tiene conto delle lesioni polmonari spesso presenti in questi soggetti, ma rilevabili solo alla TC: più della metà delle 76 persone positive asintomatiche della Diamond Princess che sono state sottoposte a tomografia toracica avevano anormalità polmonari subcliniche.
Tutti gli studi confermano l’infettività degli asintomatici
I dati giapponesi concordano con quelli riferiti da Daniel P. Oran ed Eric J. Topol, in uno lavoro pubblicato su Annals of Internal Medicine: è spesso impossibile distinguere gli asintomatici dai presintomatici, futuri malati che potrebbero essere identificati solo da uno studio longitudinale sufficientemente protratto nel tempo. Consapevoli di tutti i limiti statistici, diagnostici e di follow-up del loro lavoro, i due autori lo hanno intitolato “rassegna narrativa”. Si tratta del resoconto degli studi sull’argomento “assenza di sintomi in soggetti positivi” pubblicati in rete dal 19 aprile al 26 maggio, da cui emergono i dati di una serie di coorti come Islanda, Vo’ Euganeo, Diamond Princess, rifugi per i senzatetto di Boston e di Los Angeles, centro ostetrico di New York City, portaerei Theodore Roosvelt, portaerei Charles De Gaulle, cittadini giapponesi evacuati da Wuhan, cittadini greci evacuati da Spagna, UK e Turchia, pensionato per infermieri di Washington, detenuti in Arkansas, North carolina, Ohio e Virginia, impiegati e studenti della Rutgers University, residenti dell’Indiana, nave da crociera argentina, residenti di un distretto di San Francisco.
In particolare, la coorte di Vo’, con la ripetizione dei tamponi ai residenti a distanza di tempo, sembra confermare che gli asintomatici sono in grado di trasmettere il virus ad altri. Stesso risultato sulla nave T. Roosvelt, dove gli asintomatici hanno infettato altri per un periodo che supera le due settimane. L’età dei casi asintomatici di molte coorti fanno pensare che la gravità clinica aumenti con l’età e abbia a che fare anche con il genere (risparmiando le femmine). Ma la verità è che non si sa perché, a parità di età e di condizioni fisiche, alcuni non sviluppano sintomi e altri hanno bisogno della respirazione assistita.
Le coorti più rappresentative non sono quelle confinate a priori, ma quelle di popolazione generale, come Islanda, Indiana e Vo’: proprio dalla media dei loro dati emerge una percentuale stimata di 40-45% di asintomatici, che va corretta a 30% se si tiene conto della commistione con i presintomatici.
Mascherina per tutti
Il report di Oran e Topol è stato molto criticato per le stesse ragioni ammesse dagli autori: inattendibilità dei risultati dei tamponi per ingente proporzione di falsi postivi oltre che di falsi negativi, mancanza di follow-up con perdita dei presintomatici, coorti troppo confinate (carceri), impossibilità di inquadramento anamnestico dei soggetti implicati nella ricerca, ecc.
Comunque sia e in attesa di studi più rigorosi, sulla base del rischio diffusivo della circolazione degli infetti asintomatici, lo stesso Eric Topol ha ribadito in un tweet il suo convincimento che l’uso delle mascherine indossate in tutte le occasioni di vicinanza fisica con altre persone sia l’unico efficace freno all’epidemia, finché non sarà possibile testare tutta la popolazione.
Efficacia della mascherina nell’abbassare il numero di riproduzione dell’infezione a seconda che la mettano tutti o solo i sintomatici. Fonte: Proceedings of the Royal Society (vd. bibliografia).
La gaffe dell’OMS
Suona quindi come una gaffe quanto sostenuto da Maria Van Kerkhove, consulente della squadra tecnica anti Covid-19 dell’Organizzazione mondiale della sanità, durante la conferenza stampa virtuale dell’8 giugno 2020. La Van Kerkhove ha stimato come asintomatico il 16% della popolazione, e ha continuato dicendo che l’ipotesi che il 40% dei contagi sia causato da asintomatici proviene da modelli matematici e non è stato provato da rilevazioni reali. Kerkhove ha concluso il suo intervento dicendo che, dai dati in suo possesso, risulta molto raro che un asintomatico trasmetta l’infezione.
La spiegazione di questa spiazzante dichiarazione sta nella chiosa fatta da Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’OMS, che riporta alla distinzione tra asintomatici, presintomatici e pauci sintomatici. Secondo Guerra, gli asintomatici veri non sono molti e probabilmente sono tali perché hanno una carica virale così bassa da non costituire un serio pericolo per il prossimo. La strategia che l’OMS ritiene vincente è quella di indurre i governi a concentrare i loro sforzi nel tracciamento e nell’isolamento dei casi sintomatici.
Leggendo la trascrizione della conferenza stampa, si arriva alla conclusione, condivisa da una rivista intelligente come il New Yorker, che, come spesso è successo, estrapolare una frase innesca un’inutile polemica: che gli individui infetti ma senza sintomi possano diffondere l’infezione, l’OMS lo sa bene e lo ha ribadito Michael Ryan, epidemiologo irlandese veterano delle epidemie di Ebola e delle campagne antipolio, in un Facebook live organizzato in tutta fretta dopo le sollevazioni contro le dichiarazioni della collega, quando ha asserito: “È chiaro che sia i sintomatici sia gli asintomatici sono parte del ciclo di trasmissione”.
Il nocciolo della questione sta, ancora una volta, nella comunicazione: la risposta dell’epidemiologa statunitense, trasandata e sbrigativa, che cita fonti “attendibili” che però non sono rivelate e che non tiene conto (ma ancora oggi, dopo 400.000 morti?!) del potere delle parole, si configura come l’ennesimo errore comunicativo dell’OMS. Creare un alibi alla gente per abbassare la guardia (se non tossisco e mi sento in forma, a che servono il distanziamento e la mascherina?) è particolarmente pericoloso se si pensa che, se una persona, invece che asintomatica è presintomatica, si trova proprio nel momento in cui la sua carica virale è massima e massima è la sua contagiosità.
Bibliografia
Natural History of Asymptomatic SARS-CoV-2 Infection New Engl J Med June 12, 2020 DOI: 10.1056/NEJMc2013020
Oran DP, Topol EJ. Prevalence of asymptomatic SARS-CoV-2 infection. Annals of Internal Medicine 3/6/20 https://doi.org/10.7326/M20-3012
Richard O. J. H. Stutt, Renata Retkute, Michael Bradley, Christopher A. Gilligan and John Colvin. A modelling framework to assess the likely effectiveness of facemasks in combination with ‘lock-down’ in managing the COVID-19 pandemic. Proceedings of the Royal Society. 10 June 2020 https://doi.org/10.1098/rspa.2020.0376
Trascrizione della conferenza stampa dell’OMS (8 giugno 2020).
Mascherine, guanti, vaschette per alimenti: con la paura del contagio, la plastica usa e getta ha (di nuovo) invaso le nostre vite. Produttori e compagnie petrolifere ringraziano, ma il tutto avviene a danno dell’ambiente.
L’avevamo data per spacciata, ma con l’arrivo del coronavirus la plastica monouso è tornata alla ribalta. In tutto il mondo le persone hanno affidato la loro sicurezza a guanti e mascherine usa e getta, mentre molti governi hanno rinviato al dopo-emergenza plastic tax e norme per limitare gli imballaggi. Per la gioia delle aziende del settore, certo, ma anche delle compagnie petrolifere, che nella produzione di plastica sperano di trovare uno sbocco redditizio per tutto il greggio che, con gli aerei a terra e le auto ferme in garage, nessuno vuole più. A rimetterci è invece l’ambiente perché questa mole di rifiuti non riciclabili rischia di compromettere ulteriormente la salute di fiumi, laghi e oceani, dove si accumula gran parte della plastica che sfugge a discariche e inceneritori.
Nella prima fase dell’emergenza, si capisce, non c’è stato neanche il tempo di riflettere: il problema era trovare al più presto le mascherine per medici e infermieri; a come smaltirle ci avremmo pensato dopo. L’impiego di questi dispositivi di protezione, tuttavia, è diventato un caposaldo anche della fase 2 e sembra destinato ad accompagnarci nella lunga e tormentata convivenza con il coronavirus Sars-CoV-2. Non possiamo più fare finta di niente: si stima che ogni giorno, solo in Italia, l’uso di mascherine produca almeno 100 tonnellate di rifiuti plastici. E poiché si tratta di materiali compositi e contaminati, non si possono differenziare né riciclare. Quando va bene, finiscono in un inceneritore. Quando va male, sono dispersi nell’ambiente.
Inoltre non ci sono solo guanti, camici e mascherine. Durante il lockdown c’è stato un boom di imballaggi in plastica monouso per alimenti da asporto, nonostante oggi siano disponibili valide alternative in materiali compostabili. L’armamentario della fase 2 è invece un tripudio di divisori in plexiglas, sacchetti monouso e pellicole avvolgenti. La normativa Inail, per esempio, obbliga i parrucchieri a consegnare a ogni cliente “unaborsa/sacchetto individuale monouso per raccogliere gli effetti personali da restituire al completamento del servizio”, e a “fornire al cliente durante il trattamento/servizio una mantella o un grembiule monouso ed utilizzare asciugamani monouso”.
Approfittando della Covid-19, i produttori di plastica hanno esercitato pressioni sui governi affinché rinunciassero alle restrizioni e ai balzelli sulla plastica monouso, spesso con successo. In Italia l’entrata in vigore della plastic tax è stata rinviata al 2021, mentre la Gran Bretagna ha sospeso l’annunciato rincaro sui sacchetti di plastica. Negli Stati Uniti la Plastics Industry Association ha promosso la campagna Bag the Ban, invitando il ministero della Salute statunitense a opporsi ai disegni di legge per vietare i sacchetti monouso, sostenendo (senza prove) che la plastica è più igienica e sicura delle borse riutilizzabili. In realtà, secondo uno studio dei National Institutes of Health, il coronavirus Sars-CoV-2 sopravvive sulla plastica fino a tre giorni e quella che esce dagli stabilimenti non è certo sterile.
Ai tempi della Covid-19 la plastica può dare una mano anche alle compagne petrolifere. Già prima della pandemia gli analisti avevano previsto che l’industria del gas e del petrolio avrebbe puntato sull’aumento della produzione di plastica per compensare le perdite dovute al diffondersi delle auto elettriche e alle politiche sul clima. E oggi, con tutto quel petrolio disponibile a prezzi stracciati, in molti casi riciclare la plastica è diventato meno conveniente che buttarla e produrne dell’altra. La produzione di plastica è già quadruplicata negli ultimi 40 anni e secondo stime del 2019 entro la metà del secolo sarà responsabile del 15% delle emissioni globali di gas serra, poco meno di quelle che oggi vengono attribuite al settore dei trasporti.
Nel frattempo i ricercatori avvertono che l’inquinamento da microplastiche – che ormai si trovano persino nell’aria che respiriamo – è persino più diffuso del previsto. Uno studio appena pubblicato sulla rivista Environmental Pollution mostra infatti che la concentrazione di microplastiche negli oceani è stata ampiamente sottostimata: sarebbe almeno il doppio di quanto si credeva finora. In base a questi nuovi dati, i ricercatori affermano che negli oceani ci sono più frammenti di materie plastiche che zooplancton, gli animaletti alla base della catena alimentare marina. E poiché le microplastiche hanno le stesse dimensioni del plancton, finiscono nella dieta dei pesci e tendono ad accumularsi negli organismi superiori, arrivando fino a noi. Gli effetti sulla salute umana sono ancora oggetto di studio, ma poiché gran parte della plastica dispersa nell’ambiente risulta contaminata da sostanze tossiche, il sospetto è che l’accumulo nei nostri corpi non faccia un gran bene.
Le associazioni ambientaliste denunciano che guanti e mascherine disperse nell’ambiente hanno già raggiunto fiumi e mari, dove rischiano di creare gravi danni alla fauna acquatica. “I guanti, proprio come i sacchetti di plastica, possono essere scambiati per meduse dalle tartarughe marine, mentre gli elastici delle mascherine sono un pericolo per molte specie animali”, racconta John Hocevar, direttore della campagna oceani di Greenpeace Usa.
Se non vogliamo che l’emergenza coronavirus si trasformi in una nuova bomba ecologica dobbiamo ripensare l’intera filiera affinché diventi al più presto sostenibile: almeno per gli impieghi non sanitari, si potrebbe pensare a mascherine riutilizzabili, o prodotte con un unico polimero e altri materiali facilmente separabili e riciclabili, nonché a contenitori appositi da distribuire in ogni centro urbano. Perché quando ci saremo finalmente sbarazzati della Covid-19, la plastica che abbiamo disperso nell’ambiente ci farà compagnia ancora molto, molto a lungo.